di Mario Giardini
A metà del XV secolo la popolazione di Inghilterra e Galles era scesa sotto i due milioni di abitanti. Un atroce e gravoso pedaggio pagato alle ricorrenti epidemie di peste nera, abbattutesi sui due paesi nei due secoli precedenti. Peste che sarebbe poi tornata a intervalli più o meno regolari, ma con conseguenze meno devastanti.
Attenuatosi il flagello, la popolazione prese a crescere stabilmente. Intorno a fine ottocento era quasi quintuplicata. In una economia prevalentemente contadina, l’ovvia conseguenza dell’aumento di popolazione fu una progressiva scarsità di risorse, in particolare quelle provenienti dall’uso della terra.
La necessità crescenti dell’agricoltura e della pastorizia, l’urbanizzazione ed il crescente consumo di energia, soprattutto di legname, crearono una crisi ambientale senza precedenti.
Per costruire una nave da guerra, nel XVII e XVIII secolo, ci volevano, in media, i tronchi di 4000 alberi. La maggiore potenza marinara dell’epoca, e cioè la Gran Bretagna, data la scarsità di legname sul suolo patrio, risolse di farsi costruire le sue navi mercantili nelle colonie americane. Adattandosi a dipendere, per un aspetto essenziale della propria strategia imperiale, da forniture da colonie che poi finirono per ribellarsi e proclamarsi indipendenti.
I forni per la produzione di ghisa andavano a legna: si calcola che ciascuno di loro consumasse, per produrre una tonnellata di ferro, da 25 – 50 tonnellate di carbone di legna. La produzione media di una foresta, in climi temperati, è calcolata fra le 3 e le 5 tonnellate all’anno per ettaro. Si arrivò al punto che l’intero patrimonio boschivo fu severamente intaccato.
Altre attività, quali la fabbricazione della birra, del pane, del vetro facevano uso di carbone di legna. Nelle case si usava la legna per scaldarsi, cucinare, illuminare.
Alternative al legno come fonte primaria di energia non parevano esserci. Il carbone era noto da moltissimo tempo. Il Galles del Sud ne traboccava, ed era disponibile in superficie.
Ma in tutti i processi produttivi, per come erano concepiti, ed anche negli usi domestici, il carbone ed i prodotti della sua combustione, venivano a contatto diretto col prodotto e/o le persone. Le impurità contenute, specialmente lo zolfo, semplicemente li rovinava e creava gravi danni alla salute. Nelle case i fumi della combustione, contenendo anidride solforosa, erano un ovvio impedimento al suo uso.
Inevitabilmente il prezzo del legno aumentò. Ne soffrirono molte industrie. In particolare, quella del ferro e del vetro. La scarsità ha sempre stimolato l’ingegno degli uomini. Ma la risposta non venne dalla scienza, bensì dalla tecnologia. O, meglio, dagli “ingegneri” dell’epoca, tutti o quasi illetterati. Due di essi meritano una menzione particolare.
Il primo è Abraham Darby, un quacchero “iron master”, fabbro diremmo noi. Fu il primo a usare con successo il carbon coke per produrre la ghisa. Il coke viene ottenuto mediante pirolisi, cioè combustione in difetto di ossigeno, del carbone naturale.
La prima colata di successo avvenne il 10 gennaio 1709, trecento sette anni fa.
Il buon quacchero fu anche fortunato: il carbone di cui fece uso era praticamente privo di zolfo. Il ferro, o meglio la ghisa, da lui prodotta era di buona qualità anche in ragione di ciò. Ma scarsa: ne produsse e vendette in tutto 81 tonnellate nel primo anno di esercizio della sua fornace.
L’uso del coke presentò da subito alcuni vantaggi fondamentali. Primo: non ci voleva più il legno, così penosamente scarso, per fabbricare la ghisa (e negli altri impieghi). Secondo: si ottenevano temperature più elevate, al di sopra del punto di fusione del minerale (1500 °C circa).
Pertanto il prodotto ottenuto era un liquido fuso che poteva essere colato con facilità. E non una amalgama pastosa, come prima, che abbisognava di martellamento per essere resa adatta a successive lavorazioni.
Infine, il coke era meccanicamente più resistente del carbone di legna. Si potevano alternare un maggior numero di strati di coke con strati di minerale, proprio a causa della maggior resistenza meccanica del coke, e quindi costruire forni più grandi e ottenere produzioni unitarie maggiori.
Ultimo, ma non meno importante, le 25-50 tonnellate dello scarsissimo legno prima necessarie per produrre una tonnellata di ghisa, diventarono 8 – 9 tonnellate di abbondantissimo e poco costoso coke.
Ma questi vantaggi avevano un prezzo: il coke brucia peggio del carbone di legna.
Dunque era necessario insufflare aria nei forni in quantità maggiore. All’inizio, si ricorse a mantici mossi da mulini ad acqua. Intorno al 1775 si fece un grosso passo avanti utilizzando la macchina a vapore di Watt per fornire potenza ai mantici. Un altro passo decisivo, in termini di velocità e produttività, venne nel 1820.
Pre-riscaldando l’aria che veniva insufflata nel forno si ridusse la quantità necessaria di coke a 2 – 2,5 tonnellate per ogni tonnellata di ferro prodotta.
Nel 1856 Henry Bessemer introdusse il suo processo per produrre rapidamente, e a basso costo, l’acciaio. Fu così disponibile il materiale di base per la successiva meccanizzazione dei trasporti e delle costruzioni.
In tutto il mondo oggi si produce circa un miliardo di tonnellate di ferro, ghisa e acciaio. Il rapporto peso coke – peso acciao è sceso a meno di uno a uno. Cioè si è passati da 8-9 tonnellate di coke dei tempi di Darby a meno di una tonnellata, con un incremento di efficienza di dieci volte.
Questi numeri provano che uno degli obiettivi, sempre raggiunto, ma fondamentale di ogni tecnologia, in qualsiasi epoca, compresa l’attuale ovviamente, è quello di consumare sempre meno risorse. Non è una questione di etica, ma di denaro. Meno risorse impiegate = minori costi unitari di produzione.
La tecnologia è intrinsecamente ambientalista. Cosa che gli ambientalisti rifiutano cocciutamente di ammettere. Convinti, come sono, del loro Verbo, e digiuni, come sono, di conoscenze.
pubblicato su www.thefrontpage.it
2.6.2015 segue
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