di Mario Giardini
Quando nel 1952 entrò in servizio, il deHavilland Comet 1 era il più veloce aereo commerciale dell’epoca (800 km/h circa contro i 500 del DC 6); volava oltre i 30 000 piedi (9 000 m abbondanti) al di sopra dunque delle zone temporalesche, ed era, nonostante i consumi elevati dei primi turbo-jets, nel complesso, assai più efficiente.
Un aereo rivoluzionario.
Nonostante i pochi passeggeri (36 nella prima versione), i consumi ed il prezzo (doppio del DC 6), riduceva i costi operativi, per passeggero trasportato, di oltre il 20%.
Naturalmente era un aereo le cui condizioni di impiego erano nettamente più sfidanti di quelle allora note. In particolare, la maggior velocità in condizioni di aria turbolenta incrementava le vibrazioni cui la struttura era sottoposta. Inoltre, la cabina necessitava di un aumento della pressurizzazione. E la differenza di temperatura fra interno ed esterno (- 43 °C) aumentava ulteriormente le sollecitazioni.
I progettisti decisero di studiare a fondo i materiali da impiegare ed il comportamento strutturale del velivolo. Costruirono una vasca gigantesca dove la cabina fu immersa e sottoposta ad alta pressione e a 10.000 cicli di carico, per simulare le condizioni di fatica cui la struttura andava incontro nella sua vita operativa. Furono raddoppiati i margini di sicurezza rispetto a quelli adottati per i velivoli propulsi da motori a benzina.
Ma la realtà operativa provò successivamente che quanto fatto in sede di progetto non fu abbastanza. Il territorio che si esplorava era assai più pericoloso di quanto si potesse immaginare. Ed i tempi ridottissimi imposti al progetto (dimezzati rispetto al piano originale, che prevedeva il primo volo dopo 4 anni), complicarono ulteriormente il tutto.
Il 2 maggio del 1953, nei pressi di Calcutta, un Comet 1 si disintegrò in volo, durante una forte tempesta tropicale. Il Registro Aeronautico britannico richiese alla deHavilland di riprendere i test di fatica. Fu condotta un’indagine che si giudicò accurata, visti i 18 000 cicli di carico strutturale continuato cui si sottopose l’aereo.
Nonostante le migliaia di cicli, solo piccole fessure furono riscontrate agli angoli dei finestrini, progettati, nonostante taluni dubbi, rettangolari e più grandi del normale. Si dedusse che non costituissero un pericolo, e si concluse, provvisoriamente, (e, sulla base delle prove accumulate, ragionevolmente ndr), che le ragioni dell’incidente non fossero attribuibili ad un cedimento strutturale.
Ma il 10 gennaio del 1954 un altro Comet 1, decollato da Ciampino, si disintegrò in aria sull’Elba, causando la morte di tutti i passeggeri. L’intera flotta venne messa a terra. Ma ancora, contro l’evidenza, prevalse, anche per interessi industriali, l’idea che i 18 000 cicli di cui sopra avevano provato a sufficienza la robustezza strutturale della macchina.
Meno di dieci settimane dopo, il 23 marzo, con la Royal Navy ancora impegnata a recuperare corpi e frammenti di aereo in acque italiane, e l’investigazione sull’incidente non conclusa, la BOAC fu autorizzata a riprendere i voli commerciali.
L’8 aprile seguente un altro Comet 1 si disintegrò in volo vicino all’isola di Stromboli. Di nuovo la flotta fu messa a terra, ma questa volta vi rimase fino al 1958.
L’analisi degli incidenti, nei mesi successivi, rivelò che la struttura cedeva per fatica. Che le sollecitazioni operative erano di fatto circa il triplo di quanto previsto in sede di progetto e di quanto sperimentato nella vasca prove. E che la criticità stava fondamentalmente nella tecnica di rivettatura adottata per la giunzione delle parti di fusoliera.
Le forature dei rivetti erano realizzate mediante punzonatura a freddo dell’alluminio. Ciò produceva micro-fratture, visibili solo al microscopio, che, col tempo, si allargavano fino alla rottura improvvisa e alla conseguente, catastrofica, decompressione esplosiva.
I punti critici che innescavano la rottura e la decompressione esplosiva della cabina erano gli angoli dei finestrini. Fu allora che nacque una specializzazione della meccanica ignota ai più e che va sotto il nome di fracture theory: studia come la fatica inneschi microlesioni nei materiali più vari, e come e quando esse si trasformano in rotture, spesso catastrofiche.
Il Comet fu interamente riprogettato. Ci vollero quattro lunghi anni per rimetterlo in linea di volo.
Ma quando riapparve sul mercato, era tardi: Boeing e Douglas si accingevano a introdurre il 707 ed il DC 8.
Il tempo della cometa era passato: ne furono costruiti in tutto appena 114 esemplari.
La Pan Am fu la prima a ricevere e mettere il servizio il Boeing 707, l’aereo che mise fine alla supremazia dell’industria aeronautica britannica (oltre 1000 esemplari costruiti e consegnati in vent’anni), decretando la prematura scomparsa dal mercato di quello che era stato il primo, e rivoluzionario, jet di linea.
Il 26 ottobre 1958, il primo 707 Pan Am attraversava l’Atlantico con quattro motori costruiti dalla P&W, ciascuno dei quali capaci di una spinta pari a 51 000 N (5.200 Kg), collegando New York con Parigi. Tuttavia, i consumi erano tali da richiedere uno scalo a Gander, Canada, per il rifornimento.
Per alcuni anni il raggio di operazione dei jets commerciali si mantenne intorno alle quattro mila miglia. Le potenze necessarie erano possibili solo aggiungendo acqua alla combustione, il che significava portarsi a bordo qualche tonnellata di peso morto aggiuntivo.
Fu solo l’introduzione dei primi turbo-fans a permettere di innalzare l’autonomia a 6000 miglia (+50%). La ragione era semplice: minor consumo e maggiore spinta a parità di peso. Il che permetteva di imbarcare più passeggeri e più carburante. Non c’era più bisogno di acqua. Ed il funzionamento, cosa non banale, era assai meno rumoroso: – 40 dB in media.
Un passo avanti determinante fu, nel 1968, la realizzazione di un nuovo turbo-fanPratt & Whitney, un autentico, doppio miracolo di ingegneria, per i tempi: 193.000 N di spinta (circa 20.000 kg) con un peso di appena 3.905 kg. Doppio miracolo perché, per la prima volta, si introducevano nella progettazione dei turbo-fan le leghe di titanio e di nichel ed un rapporto di diluizione di 5 a 1, il più alto mai tentato.
Questo motore permise a Jack Waddell, capo collaudatore della Boeing, di pronunciare quattro parole rimaste famose nella storia dell’aviazione civile: “Ridicolmente semplice da pilotare”. Parole dette il 9 febbraio 1969, dopo il primo volo dell’aeroplano che ha rivoluzionato il trasporto aereo civile: il modello 747 della Boeing, soprannominato affettuosamente da tutti “Jumbo Jet”.
Era una giornata fredda, il cielo di Everett, nello stato di Washington, era plumbeo e soffiava un vento piuttosto fastidioso. Quando il 747 staccò le ruote e prese a salire, ci fu un lungo applauso. Si alzava in volo un aereo straordinario in tutto.
Un Boeing 747 in decollo
In origine concepito quale cargo militare, il progetto fu modificato nel 1966, per il volere di Juan Trippe, capo e proprietario della Pan American Airlines.
Trippe era convinto, e non sbagliava, che il futuro dell’aviazione civile fosse nei velivoli più grandi, con maggiore capacità di carico, che volassero più lontano e consumassero di meno. E non, come la maggioranza degli esperti all’epoca sosteneva, nel trasporto aereo supersonico. Mentre francesi e inglesi progettavano il Concorde, Trippe brigava per progettare un jet gigante.
Per convincere la Boeing, Trippe fece un’offerta che non si poteva rifiutare: firmò un contratto per 25 aeroplani, mettendo sul tavolo una cifra enorme, oltre 525 milioni di $ dell’epoca. Chiese, ed ottenne, di aver voce in capitolo allorché si definirono le caratteristiche della nuova macchina.
Nessuna società prima della Pan Am aveva mai influito così tanto nella progettazione di quel che si sarebbe rivelato un aereo superbo. E nessuna vi riuscì dopo.
Ne venne fuori un aereo con una capacità di carico superiore del 250% a quella massima dell’epoca (Boeing 707), capace di imbarcare fino a 500 passeggeri (contro i 170 del 707) e di trasportare anche 25 tonnellate di merci a novemila chilometri di distanza. Realizzando un risparmio del 35% nei costi operativi rispetto al fratello minore.
Progettazione e realizzazione del primo prototipo del Jumbo furono qualcosa di assolutamente irripetibile: in tutto, 28 mesi appena.
Uno sforzo tecnologico ed industriale spettacoloso: solo per costruire l’edificio di assemblaggio fu necessario muovere 3 milioni di mc di terra. Venne costruito, in parallelo, il più grande stabilimento aeronautico del mondo.
Firmando il contratto, Trippe definì il 747 “a great weapon for peace, competing with intercontinental missile for mankind’s destiny”. Infatti, il 747 è stato il più grande aereo commerciale per quasi quarant’anni, fino all’entrata in servizio del primo Airbus A 380, nel 2007.
Ne sono stati costruiti oltre 1500. Il Jumbo assicura, ancora oggi, non solo il trasporto di centinaia di milioni di passeggeri, ma anche più della metà della capacità di carico merci dell’aviazione civile mondiale. Trasporta, ogni anno, beni di ogni genere, per un valore complessivo prossimo ai 3.000 Miliardi di dollari: una volta e mezza il PIL italiano.
Il modello più recente è la serie 747-8, una macchina con un peso massimo al decollo pari a 448 tonnellate, che imbarca fino a 242.000 litri di Jet A1, trasporta 467 passeggeri a 14.815 km di distanza (per dire, Roma Buenos Aires o Londra – Singapore senza scalo), e monta motori da circa 30.000 Kg di spinta (296.000 N).
Il prezzo del primo esemplare, 1970, era di 24 milioni di USD.
Adesso, e lo scrivo per chi volesse farci un pensierino, il listino è salito un pochino:la serie 8 parte da 367,8 Mil USD.
Con questo articolo, si conclude la serie: Motori primi, energia e globalizzazione
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