di Mario Giardini
Uno dei più gravi versamenti in mare di petrolio avvenne il 24 marzo 1989, quando la Exxon Valdez incagliò nella baia Prince William Sound, Alaska. Fuoriuscirono 10,9 milioni di galloni di petrolio grezzo dei 53 milioni ch’erano a bordo. Un gallone americano equivale a 3,785 litri. Perciò, circa 41 milioni di litri, o, se si preferisce, 41.000 metri cubi. In totale, si stimò che circa 1300 miglia di costa, non continue, furono inquinate. Di esse, 200 furono classificate “da forte a moderatamente” inquinate. Le rimanenti, “leggermente” o “molto leggermente”.
Una serie di fattori naturali contribuì a rendere più grave l’incidente. Due giorni dopo, il 26, una tempesta, con venti fino a 70 Kmh, disperse il petrolio e lo convertì parte in una sorta di “schiuma” e parte in grumi di catrame, spingendo il tutto su una linea di costa più lunga. Inoltre, il periodo dell’anno era sfavorevole (fine inverno), con fluttuazioni di marea fino a 6 metri. Ciò portò il petrolio molto più in alto, aumentando la fascia inquinata. Nel caso di rocce, il petrolio si depositò in superficie. Sulle spiagge, penetrò in profondità. Venti, maree e tempeste lo spostarono costantemente, rendendone assai difficile il rilevamento e la rimozione.
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