Ustica, una maledetta storia Italiana – 4 – La “logica” del giudizio civile

di Mario Giardini

I TIGIVediamo quali sono stati i criteri adottati dal giudice civile per analizzare il caso, uno dei più complessi e discussi della storia repubblicana, deliberare ed emettere la sentenza che condanna i Ministeri al risarcimento .

Giudizio penale e giudizio civile. Alcune sentenze di Cassazione degli ultimi anni sanciscono che in Italia vige perché “instaurato dal legislatore il sistema della pressoché completa autonomia e separazione fra i due giudizi”.

La differenza sostanziale fra i due processi, istruisce la Cassazione, “è nella prova”. Ne processo penale si esige di provare “ogni oltre ragionevole dubbio”. In quello civile invece vige la regola del “più probabile che non”. E’ il cosiddetto “standard di certezza (!) probabilistica”.

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Aviazione – Disastri – 3 – Vite … consumate. La tragedia del volo Alaska Airlines 291

 

di Mario Giardini

alaska airlinesFossero presenti dei testimoni, in quel tratto di mare fra l’isola di Anacapa e la Santa Monica Bay, essi assisterebbero a una scena che sembra tratta da un film di guerra. Che non sia una finzione, ma un fatto reale, terribile nella sua tragicità, è presto evidente.

Un aereo, quasi fosse soggetto a improvvisa follia, punta il muso verso la superficie grigia dell’Oceano. In pochi secondi, passa da un assetto di volo orizzontale a uno quasi verticale. Siccome ruota verso sinistra, alle 16 19 45, cioè appena nove secondi dopo, il jet si ritrova a volare rovesciato.

Una manovra che un aereo da caccia eseguirebbe solo se, braccato da un aggressore alle sue spalle, non fosse in grado di affrontarlo e cercasse una via di fuga. In questi brevi istanti, l’aereo è precipitato per circa 1500 m.

Tuttavia, non è la scena di un film. E l’aereo in questione non è un caccia. E’ un MD 83 della Alaska Airlines. Pur rovesciato, seguita a volare, e a scendere. La prua sembra ammiccare, va su e giu. In realtà, sta rispondendo agli sforzi disperati dei piloti, che tentano di riguadagnare il controllo sulla macchina impazzita.

La discesa continua, l’acqua è, minacciosamente, sempre più vicina, un timido accenno a rimettersi in linea di volo normale si esaurisce presto. Meno di novanta secondi dopo, l’MD 83 entra in acqua rovesciato di 150°, ad una velocità intorno ai trecento cinquanta chilometri orari. Nell’impatto l’aereo si disintegra. I due piloti, i tre assistenti di cabina e gli 83 passeggeri, fra cui tre bambini di età inferiore ai due anni, muoiono istantaneamente per i traumi riportati.

 Che cosa di tanto terribile può essere accaduto a bordo, da far sì che il grande jet, in meno di un minuto e mezzo, passasse dalla quota di volo di circa 7200 metri all’impatto con il mare?

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Motori primi, energia e globalizzazione – 13 – L’unico motore primo inventato nel XX secolo: il turbogetto

di Mario Giardini

turbogetto 1Il turbogetto fu inventato negli anni ’30 del secolo scorso. Il suo ciclo termico comprende le quattro fasi classiche del motore diesel. Aspirazione di aria. Compressione. Aggiunta e combustione di un carburante, che provoca l’aumento di temperatura e l’espansione dei gas prodotti dalla combustione. Scarico.

Ma il meccanismo che realizza il ciclo è radicalmente diverso. Al posto di un cilindro nel quale scorre con moto alterno un pistone, che poi trasmette la spinta dei gas combusti all’albero motore, si usa un dispositivo in cui ogni fase è realizzata in una sezione distinta.

Così aspirazione e compressione vengono realizzati dalla sezione anteriore. L’aria compressa viene inviata ad una serie di camere di combustione disposte radialmente. Gli iniettori disposti nelle camere ci combustione provvedono un flusso continuo di carburante, che viene bruciato. I gas della combustione, ad altissima temperatura, passano attraverso una turbina e poi vengono espulsi attraverso un ugello di scarico.

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Pseudoscienze – 1 – Le pseudoscienze viste al lume della ragione

di Pier Vittorio Gard

pseudoscienzeQuesto articolo è il primo di una serie dedicata alle pseudoscienze, viste con l’occhio critico dello scettico, fermamente deciso a rifiutare ogni dogma o superstizione e credere solamente nella ragione e nella evidenza scientifica.

Premettiamo che si intendono come “pseudoscientifiche” quelle affermazioni/teorie che pretendono di possedere una verità scientifica, ma sono invece rifiutate dalla scienza perché non rispettano i suoi principi fondamentali, quali la metodologia rigorosa e i criteri di evidenza .

Una bella definizione della pseudoscienza, per quanto riguarda il campo medico, la troviamo nel documento di condanna  della cosiddetta medicina alternativa che nel 2002 i premi Nobel italiani Dulbecco e Rita Levi Montalcini, insieme a 35 scienziati di fama internazionale, hanno indirizzato alla Federazione degli ordini dei medici in Italia(Fnomceo). Il documento citato si riferisce alle sole pratiche mediche, ma le osservazioni critiche sono sostanzialmente applicabili anche per qualificare gli altri rami della pseudoscienza.

Nel documento si legge “…I cultori delle medicine non convenzionali negano addirittura la necessità di dimostrare l’efficacia dei rimedi con metodo scientifico. Le pratiche di medicina non convenzionale hanno un approccio ideologico alle malattie, si basano su presupposti arbitrari, …non offrono una spiegazione razionale alla presunta efficacia delle cure e fanno riferimento a meccanismi del tutto indimostrabili”.

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Cosmologia – 17 – Chi sono i figli delle stelle?

di Mario Giardini

 

 

3 Minuti 1I primi tre minuti è un libro di Steven Weinberg, fisico americano, premio Nobel 1979. Pubblicato nel 1977, racconta la nascita dell’universo, a partire dall’istante zero: il big bang. E’ un libro che non ha ancora perso il suo fascino, nonostante i 37 anni e passa trascorsi dalla sua prima edizione.

Nei primi tre minuti, a mano a mano che il “brodo” primordiale si raffreddava dai 100 miliardi di gradi iniziali, sono venuti ad esistenza tre elementi che trovate ancora nella tavola periodica ai primi tre posti: idrogeno, elio e litio.

Oggi questa tavola è composta di 118 “blocchi”: ciascuno rappresenta un elemento. Novantadue sono detti “naturali” perché li trovate, appunto, in natura: sul pianeta Terra. Gli altri, a partire dal nettunio, numero atomico 93, per finire al 118, l’ununoctio (o eka-radon), sono stati creati in laboratorio. In particolare l’ultimo fu scoperto da un team americano-russo  usando il ciclotrone di Dubna, fra il febbraio e il giugno del 2005, per bombardare con l’isotopo 48 del calcio (numero atomico 20) un bersaglio costituito da atomi di californio, numero atomico 98.

L’esperimento ebbe un successo clamoroso: furono prodotti ben tre atomi di Uuo.

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Ustica, una maledetta storia italiana – 3 – Negligenza, omissioni e depistaggi

di Mario Giardini

In Italia può capitare di avere dipendenti assolti  da un’accusa penale “per non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non flottacostituisce reato”. Ma l’organizzazione cui appartengono tali dipendenti può essere condannata in sede civile a risarcire i danni derivanti dal medesimo “fatto”.

Ho appreso come sia stata codificata una tale logica per me incomprensibile leggendo la sentenza (160 pagine) del Tribunale Civile di Palermo che condanna i Ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire parenti ed eredi del disastro aviatorio di Ustica per “omessa garanzia della sicurezza del volo”. La sentenza riporta anche i criteri adottati (e sono questi che commenteremo in dettaglio) per dimostrare quale sia la causa più probabile del disastro (missile o “quasi collisione”) ed il “nesso causale fra tale condotta (dei Ministeri ndr) ed il disastro.

Il 10 settembre 2014 è stata depositata in cancelleria la Sentenza del Giudice Civile di condanna del Ministero dei Trasporti e di quello della Difesa per “omessa garanzia della sicurezza del volo” dell’Itavia precipitato ad Ustica.

Sentenza emessa a seguito della chiamata in giudizio (2007) degli stessi Ministeri fatta dai familiari ed eredi delle vittime del disastro. I quali familiari ed eredi delle vittime chiedevano anche il risarcimento dei danni cagionati “dal sistematico depistaggio ed intralcio al più proficuo svolgimento delle indagini” di “soggetti organicamente riconducibili” ai suddetti Ministeri.

A ciò si aggiungeva la richiesta di risarcimento per il “danno patrimoniale e non patrimoniale derivante dalla lesione del loro diritto all’accertamento della verita”.

L’argomentazione principale addotta a sostenimento della richiesta di risarcimento è riportata dalla sentenza (pag 5). Vale la pena, credo, citarla per intero:
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Ustica, una maledetta storia italiana – 2 – I periti, le perizie, il confronto con altri paesi

di Mario Giardini

aaibL’incidente al volo Itavia accadde il 27 giugno ’80. La sentenza di rinvio a giudizio (non degli autori della strage, che fu attribuita ad ignoti) è del 1999.

L’ultima perizia tecnica (ultima di 103 o 106 perizie di vario genere, non sono sicuro di averle tutte ) fu consegnata al magistrato nel 1997. E fu da questi ritenuta “non conclusiva”.

Cioè, il magistrato destituisce di credibilità il perito da lui stesso nominato, e si dichiara, lui magistrato evidentemente non esperto di incidenti aerei, in grado comunque di rifiutare le conclusioni di una perizia tecnica

Il disastro di Lockerbie (il 747 della Pan Am fatto saltare dai servizi di Gheddafi) avvenne la sera del 21 dicembre del 1988. Il rapporto della commissione investigatrice è del 6 agosto del ’90. 17 anni e 106 perizie, non conclusive, contro una sola, consegnata in 20 mesi.

Il numero totale di pagine delle perizie fatte per Ustica mi è ignoto. Io ne ho contate (quelle pubblicate e quelli di cui si conosce “la consistenza”) più di 10.000. La sola relazione Misiti (1994) constava di 1280 pagine. Il rinvio a giudizio del giudice Priore era costituito da 5468 pagine. In totale si stima che si siano prodotte oltre 2.000.000 di pagine comprese le verbalizzazioni dei processi.

E’ ovvio che in due milioni di pagine c’è tutto ed il contrario di tutto. E la verità, ammesso che vi sia contenuta, diventa irrintracciabile.

La perizia per Lockerbie è pubblica, si trova sul sito della AAIB britannica (https://assets.digital.cabinet-office.gov.uk/media/5422f36ee5274a1317000489/2-1990_N739PA.pdf), consta di un rapporto principale fatto di 66 pagine, più 97 di allegati. In tutto, 163 pagine. E’ scritta in un linguaggio chiaro, semplice, che tutti possono comprendere. E sì che c’era da ricostruire e provare la distruzione in volo, causa ordigno, di un 747. Nessuno, fra l’altro, si è sognato di contestarla.

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Ustica, una maledetta storia italiana – 1 – Ventisette (27!) anni per arrivare al giudizio finale in Cassazione

di Mario Giardini

USTICA27 giugno 1980, ore 20,59 e 45 secondi. Dagli schermi radar del Centro di controllo di Roma Ciampino scompare un DC9 della compagnia Itavia, matricola I-TIGI, nominativo radio IH-870.  Percorreva, a 25.000 piedi, l’aerovia Ambra 13. L’aereo, con a bordo 77 passeggeri, tutti di nazionalità italiana, e 4 membri dell’equipaggio, era decollato con due ore di ritardo, alle 20,08, dall’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna. Doveva atterrare allo scalo siciliano di Palermo Punta Raisi alle 21,13.

E’ la fine per 81 inermi esseri umani. Ed è l’inizio del dramma e del dolore dei parenti. E di una indegna farsa politica che neppure dopo trenta cinque anni accenna a finire. Occuparsi di Ustica è come studiare un processo kafkiano.

L’istruttoria dura esattamente 19 anni, 2 mesi e 4 giorni. L’ordinanza viene depositata, infatti, dal giudice istruttore in data 31 agosto 1999. Sono in tutto 5468 pagine. Cinquemilaquattrocentosessantotto. Un’enciclopedia. Incompleta, perché ad essa sono allegati (se ho contato bene) 103 (centotré) documenti tecnici peritali.

In tale data, il giudice scrive “non doversi procedere in ordine al delitto di strage perchè ignoti gli autori del reato”.

Quindi oltre 19 anni di indagine (quasi a senso unico), 103 perizie, migliaia di interrogazioni, milioni di pagine di testimonianze, ingenti spese di recupero del relitto ed il suo studio, esperti stranieri e nostrani, politici, media, eccetera, producono il nulla.

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Motori primi, energia e globalizzazione – Parte 12 – Il Flyer, i fratelli Wright, il motore alternativo per aviazione

 

di Mario Giardini 

 

Fratelli Wright“The Wright engine was a bit crude, even by the standards of the day”. Crude è una parola che si può tradurre con rozzo, primitivo, grezzo. La frase è tratta dal sito dello Smithsonian Air and Space Museum, ed è riferita al motore del Flyer, l’aereo costruito dai fratelli Wright.

Il primo volo dell’aviazione motorizzata fu compiuto il 17 dicembre 1903. Il motore a benzina era stato progettato in casa dei fratelli Wright. Che, di professione, costruivano e vendevano biciclette. Era un quattro cilindri, quattro tempi, raffreddato ad acqua. Ma privo di radiatore, carburatore, pompa della benzina, di candele e di acceleratore. Erogava in tutto 12 HP, circa 9 kW.

L’unica vera novità era il monoblocco in alluminio, un’autentica innovazione. Fuso e lavorato dalla Buckeye Iron and Brass Works, che si riforniva di materia prima in quella che poi sarebbe diventata (1907) Alcoa. Ma, per il resto, era un motore che definire “primitivo” è perfino eufemistico.

Eppure … it worked. Funzionò. Quel giorno dal cielo coperto, freddo e ventoso (27 miglia orarie) i fratelli decollarono ed atterrarono sei volte. Il volo più lungo fu di 852 ft, poco più di 255 m, e durò in tutto 59 secondi. La velocità media fu intorno ai 16 km/h.

L’aereo pesava 342 Kg, pilota compreso. Aveva un’apertura alare di 12,3 m e una lunghezza pari a 6,4 m. L’unico strumento di volo vero e proprio era una cordicella di lana annodata all’estremità di un tubicino rigido piantato sul dorso dell’ala: permetteva di valutare, ad occhio, l’incidenza aerodinamica. Cosa indispensabile per evitare lo stallo e quindi la caduta sperimentata tre giorni prima durante un altro tentativo.

Il peso del motore è un dato piuttosto incerto. Probabilmente, stava intorno ai 65 – 80 Kg. Il che vuol dire un rapporto peso/potenza pari a 7 – 9 gr/W.


Il motore del Flyer – 1903 motore flyer

Il 30 maggio 1927 decollava da New York il Ryan M-2. Ai comandi un pilota sconosciuto al mondo intero: Charles Lindbergh. L’aereo, marche N-X-21 1, montava un motore radiale Wright (azienda nata nel 1919 per costruire motori su licenza Hispano Suiza) modello Whirlwind J-5C, 12.910 cc di cilindrata. Un radiale di nove cilindri a quattro tempi, raffreddato ad acqua. Potenza totale di 223 HP, cioè circa 173 kW. Trenta tre ore e circa 5.000 km dopo, Lindbergh atterrava a Le Bourget, Parigi, dove lo attendevano oltre 100 000 spettatori entusiasti.

L’aereo di Lindbergh non era il più grande dell’epoca: volavano già bimotori e trimotori. Per esempio, il Caproni CA 30 aveva volato già nel l’ottobre del 1914. Ma il raggio operativo di tutti i velivoli dell’epoca era piuttosto breve.

Lindbergh provò, col suo volo in solitario sullo Spirit of Saint Louis, la fattibilità dei voli intercontinentali. Erano passati appena 24 anni da quel freddo dicembre 1903. E poco meno da quando Orville Wright aveva con certezza predetto che “nessun aereo potrà mai volare (senza scalo ndr) da New York a Parigi”.

Il motore dello Spirit, a vuoto, cioè senza liquidi, pesava 236 kg. Il rapporto peso potenza, dunque, era sceso a 1,36 gr/W. Un miglioramento dell’ordine del 400%.

motore lindbergh
Il Wright J5-C Whilrwind

Nel 1937 venne provato al banco quello che poi si rivelerà uno dei più potenti motori d’aviazione mai prodotti, il Wright 3350, detto “Cyclone”.

Era un motore stellare a 18 cilindri, per una cilindrata totale pari a a circa 55.000 cc. Nella sua forma più evoluta e potente forniva oltre 3500 HP (oltre 2.600 kW). Era imponente: lungo circa due metri, diametro 1,42 m e peso che superava i 1500 Kg.

Per evitare che all’aumentare della quota la potenza diminuisse eccessivamente, era dotato di due compressori. Per renderlo più leggero, il raffreddamento era ad aria.

Negli anni seguenti si affermò anche il Pratt & Whitney R-4360 Wasp Major, 28 cilindri per un totale di oltre 71000 cc, di potenza simile, pesante circa 1800 kg.   Il Wasp finì per rivelarsi più affidabile, e fu spesso l’alternativa scelta, specie per i velivoli militari, al Cyclone.

La lista degli aerei che furono equipaggiati col Cyclone e col R-4360 è molto lunga. A cominciare dal Boeing B-29 Superfortress (Cyclone), l’aereo che sganciò le atomiche su Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto 1945.

Seguirono il cargo militare Boeing C-97, il Lockheed Super Constellation e il Douglas DC-7C, a metà degli anni ‘50. Questi ultimi due erano aerei passeggeri, nati vecchi, perché gli ultimi ad essere propulsi con motori alternativi.

Il DC-7C aveva una capacità di 105 passeggeri, era equipaggiato con 4 motori Cyclone, pesava oltre 64 tonnellate e aveva una velocità di crociera di circa 580 km/h. Entrò in servizio nel 1955, e fu acquistato anche dall’Alitalia.

motori radiali

Ma, come si diceva, era nato vecchio. L’età dei Jets commerciali era già incominciata. Il 2 maggio del 1952 il primo DeHavilland Comet era entrato in servizio per la British Overseas Airways Corporation. Aveva avuto i suoi guai, come accade ogni volta che si introduce una tecnologia rivoluzionaria. Ma non si sarebbe tornati più indietro.

L’era dei grandi motori alternativi per l’aviazione era finita. Cominciata col motore dei Wright, e da un rapporto peso/potenza intorno ai 7-9 gr/W, finiva con un rapporto peso/potenza pari a circa 0,5 gr/W. Un miglioramento di 10 – 14 volte, ottenuto in meno di cinquant’anni.

Un progresso Impressionante. Ma non abbastanza. Si voleva volare più alti, più lontano, più veloci e con un numero di passeggeri maggiore.

Fu necessario dunque studiare e sviluppare un nuovo motore, autenticamente rivoluzionario. L’unico nuovo prime mover introdotto su larga scala nel corso del XX secolo: il turbogetto (ed il suo discendente naturale, il turbofan).

Gli innovatori che portarono a compimento la rivoluzione furono essenzialmente due. Un tedesco, Hans Joachim Pabst von Ohain, che fu il primo a costruire un motore a getto specificamente concepito per l’aviazione. Ed un inglese, quello che, ufficiale della RAF, sarebbe in seguito diventato Sir Frank Whittle.

Il lavoro del primo si concretizzò nella costruzione del primo aereo a reazione, lo Heinkel He 178, che volò per la prima volta il 27 agosto 1939, quattro giorni prima dell’invasione della Polonia e dello scoppio della seconda guerra mondiale. Un momento decisamente assai poco propizio per l’accoglimento di una innovazione tecnica autenticamente rivoluzionaria.

Il lavoro di Whittle portò alla realizzazione del Gloster E.28/39, che avrebbe fatto il suo primo volo nel maggio del 1941. La guerra era ormai in corso da quasi due anni. Hitler, che dominava incontrastato sull’Europa continentale, si apprestava a invadere l’Unione Sovietica, dove la sua Wehrmacht sarebbe andata incontro al medesimo destino della Grande Armée napoleonica.

Segue

 

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Un mestiere difficile e molto rischioso: pilotare un Canadair

di Mario Giardini

incendio-boschivo-canadair-generica-114953.660x368Quando gli vai vicino, ti accorgi che è veramente un aereo brutto. Sporgenze, asperità, angoli, rivetti a profusione, vernice dello scafo scrostata dai mille ammaraggi, dadi e viti che sporgono allegramente qua e là.

E l’ala, alta, che non mi piace per niente. E poi quelle gondole del turbo-prop: sembrano uscite da linee di produzioni angolane. Il cockpit ricorda, in peggio ed è tutto dire, quello del leggendario Catalina.

Chi sarebbe questo mostro? E’ il Bombardier Amphibious 415, noto da noi con il nome di Canadair. Vecchio nome, in quanto la Canadair Aircraft non esiste più da vent’anni. Fu incorporata dalla Bombardier nel 1991, se non vado errato.

Il vecchio modello, il CL 215, era stato concepito nel lontano 1960, in Canada, per combattere il fuoco cui andavano soggette le sterminate foreste di quel Paese.

Unico aeroplano al mondo che sia stato progettato espressamente per volare sugli incendi e combatterli.

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Cosmologia – 16 – Le dimensioni che contano

di Mario Giardini

rio tre dimensioni 1Democrito, come tutti sanno, o dovrebbero, fu allievo di Leucippo e autore, insieme a lui della prima teoria atomica di sapore moderno che si conosca.

Per i tempi in cui visse, circa venticinque secoli fa, i suoi concetti di atomo (i fisici di oggi parlerebbero della particella elementare che costituisce la materia dell’universo) e di spazio vuoto (cioè l’assenza di materia) erano certamente espressione di una mente geniale.

La “natura” degli atomi di Democrito è quella di muoversi, incessantemente. Questo moto perenne spiega la continua trasformazione della materia, le sue forme fluide, il divenire continuo dell’universo. I concetti di atomo e spazio giunsero fino al ‘600 e in parte furono incorporati nella meccanica newtoniana. Gli atomi di Democrito sono concepiti sostanzialmente come sfere di raggio nullo. Dei punti, insomma.

Naturalmente la scienza del XX secolo, ed in particolare la teoria quantistica hanno modificato, e di molto, i concetti che spiegano (o almeno tentano) l’infinitamente piccolo. Fra i tanti nuovi concetti, per il nostro discorso di oggi due sono importanti. Il primo è che non esistono particelle elementari nel senso democriteo, cioè fisico, cioè con una esistenza stabile ed una individualità precisa. Le tante particelle elementari che si conoscono (muoni, gluoni, barioni, bosoni, ecc) sembrano essere più il veicolo che spiega le loro interazioni che non il prodotto delle medesime.

E comunque appare assai dubbio che ci sia, da qualche parte, una particella che sia equiparabile all’atomo di Democrito. E cioè che sia la più fondamentale, il componente ultimo della materia, oltre il quale non si può immaginare nulla di più piccolo.

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Politica – Educazione 2 – L’educazione permanente e la terza cultura

di Mario Giardini

Quale sistema di insegnamento nel XXI secolo?

shannonScolarità. Nel 1951 solo l’1% della popolazione italiana possedeva una laurea.

Cinquanta anni dopo, la percentuale era salita al 7,5 %. Nel 2012, l’Istat riporta un totale di 6.120.000 fra dottorati, laurea specialistica e laurea triennale. Ciò corrisponde al 11,8% della popolazione.

In sessant’anni, un aumento di undici volte: oltre il 1100%.

Nel 2012, il numero di laureati è stato di 86.541, le femmine sono il 57,2%, i fuori corso il 49,8 % (!). Tralasciamo per un momento la “qualità” delle lauree, la reale impiegabilità di chi le possiede, e la congiuntura economica.

Questi 86.541 hanno di fronte un’aspettativa di vita superiore ai 60 anni. E non meno di 45 anni di vita professionale. Forse 50. Forse più.

In nessun paese esistono strutture pensate ed organizzate per aggiornare costantemente, il che significa rivoluzionare, le conoscenze di cui il cittadino, indipendentemente dalla sua scolarità, avrà bisogno, lasciata la scuola, per vivere consapevolmente, e liberamente, nel proprio tempo.

E’ tutto affidato a un “fai da te” personale, o, in circostanze fortunate, aziendale. Ammesso che funzioni il fai da te, per questi 86.541 sarà, con ogni probabilità, e per forza di cose, focalizzato sull’aggiornamento delle conoscenze professionali.

Ammesso che si possa conservare la propria professione per un periodo così lungo. Cosa di cui non si può affatto essere certi. Anzi, è assai probabile che il futuro di una buona parte della popolazione sarà caratterizzato di numerosi cambi di professione durante la propria vita lavorativa.

Ed il resto? Cioè quell’insieme di conoscenze che diventa ogni giorno più vasto, che modifica profondamente la nostra vita e che ogni giorno ci è più estraneo e lontano?

In altri termini: come è possibile appropriarsi delle “cognizioni” per formarsi una cultura, nel XXI secolo, laddove per cultura si intenda (Treccani) “L’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio”.

Conoscenza diffusa. Si dirà: in rete si trova tutto. Naturalmente, non è vero. E, comunque, anche lo fosse, non è scontato che questo “tutto” sia utile, e utilizzabile.

Basta provare a fare una ricerca qualsiasi. Ho appena cliccato “biomimesi”: 9.750 documenti, trovati in 0,30 sec. 9.750 documenti sono ovviamente troppi. E sarebbero troppi anche 97, cioè 100 volte meno. Ce ne sono ovviamente di ripetuti. E, ovviamente, non c’è certezza alcuna sulla loro attendibilità, accuratezza, aggiornamento, completezza.

Più si espande e più la rete somiglia alla Biblioteca de Babel. Più si espande e più si dimostra per quello che realmente è: un eccezionale meccanismo per produrre entropia, che è la misura dell’incertezza.

Individui e conoscenze che modificano le nostre vite.   Il 22 febbraio del 2000, alle soglie dei settant’anni, Neil Armstrong tenne un discorso alla riunione annuale della National Accademy of Engineering. Il titolo del suo discorso fu “The engineered century”. Il tema era: quali sono state le 20 più importanti tecnologie del 20 secolo? Quelle, cioè, che hanno impattato, rivoluzionato, e certamente migliorato, ciò che intendiamo comunemente per “qualità della vita”.

Se lo chiedessimo a noi stessi, che risposte daremmo? Internet? 13° posto. I computers dove li collochereste?

Inserireste nell’elenco le tecnologie di raccolta, purificazione e trasporto dell’acqua? Se sì, in quale posizione? Se no, perché no?

claude-shannon-nNativi digitali. Mi è capitato di domandare a una quindicina di ventenni, tutti universitari, che cosa significhi “digitale”.  Nessuna risposta corretta. Ho chiesto loro anche cosa fosse Internet. Risposta prevalente, ed errata: una rete.

Ho chiesto, in un altro contesto, se qualcuno avesse mai sentito parlare di Claude Elwood Shannon. Totalmente sconosciuto perfino a due studenti di ingegneria del II anno.

Eppure, Shannon sta alla teoria dell’informazione come Shakespeare al dramma teatrale, e Michelangelo all’arte.

Piccoli tests che provano la crescente ignoranza anche di chi è in età scolare. Ed il crescente grado di analfabetismo fra chi la scuola ha già abbandonato da tempo.

Si può definirsi nativi digitali senza sapere cosa significa digitale?

Conoscenza, capacità di giudizio e libertà. Si dirà che non è necessario saper progettare, o sapere come è fatto un gasdotto, per usare bene il gas in cucina e preparare un’eccellente parmigiana. E’ vero.

Ma è altrettanto vero magari poi qualcuno un giorno bussa alla tua porta. E ti racconta che è in progetto un mega-gasdotto che distruggerà irreversibilmente le coste della tua amatissima regione. Che peraltro tu e i tuoi conterranei avete alacremente demolito e imbruttito negli ultimi decenni. Come però non convenire che sia uno scempio da evitare?  Come non appoggiare che tenta di impedirlo?

Quello che in genere non sai è che il mega-gasdotto  è un tubo da 48” (1,22 m di diametro, l’altezza di un ragazzino di 7 anni). Che sarà interrato ad almeno 1,5 m di profondità.  Che in tutto avrà una lunghezza di 8 km sulla terraferma. E che, in Italia, di gasdotti ce ne sono già 33.000 km e passa.

Non sai che la stazione terminale non prevede accumulo, dunque si limita a pompare in rete il gas in arrivo. Niente serbatoi giganteschi. Otto – dieci ettari in tutto, dove lavoreranno, fra diretti ed indotto, qualche centinaio di persone. Insomma, il mega-gasdotto è solo una flebo da 10 miliardi di mc all’anno, con possibilità di arrivare a 20.

Infine, quello che non ti viene detto è che il 40% dell’energia elettrica del tuo paese si produce con il gas, che dipendiamo da soli tre fornitori, capaci di strozzarci, anche economicamente, a piacere. Che un fornitore in più ci darà più sicurezza e probabilmente migliori prezzi. E che se vuoi il gas per la parmigiana da qualche parte dovrà pur arrivare.

Dov’è finita la tua capacità di giudizio e la tua libertà di scelta?

L’apprendimento permanente. Come tutti, ho ascoltato i discorsi di politici, sindacalisti e le interviste agli insegnanti in sciopero.

Sinceramente, mi cadono le braccia. Per la miopia, il provincialismo, i piccoli interessi di bottega, il tirare a campare, la visione ottocentesca del problema, le contrapposizioni sgangheratamente ideologiche, le bugie.

Un piccolo minestrone fatto di tecnologie che cinquant’anni fa non c’erano: Satelliti. Rene artificiale. Macchina cuore polmone. Antipolio. Jets. CAD/CAM. Cellulari. PC. Internet. Microprocessori. Elettrocardiogramma. Fax. Fibre ottiche. Olografia. Insulina. HD. Laser. Spettrografia di massa. Neoprene. Nylon. Pacemaker. Radar. Sonar. Vaccino antipolio. Tablets. RMN. Alcune di queste tecnologie sono comparse e, ai fini pratici, anche scomparse, come il fax.

Oggi, e a maggior ragione, nel futuro, il problema è come rendere l’istruzione permanente. Come coniugare la cultura umanistica con quella tecnico-scientifica.

Come fare? Chi farà: pubblico, privato, un misto?  Da dove prelevare i mezzi per finanziare? quali le tecnologie (molte sono disponibili, altre verranno)?

L’obbiettivo ultimo dovrebbe essere tradurre l’universo delle conoscenze umane in un linguaggio comprensibile a tutti.  Ed a tutti reso accessibile, in ogni ora ed in ogni luogo.

In quest’ottica, un ruolo fondamentale lo si può affidare anche a chi, finita l a vita lavorativa, è ancora pieno di energie, in salute, carico di esperienze e, non di rado, di saggezza.

 

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