di Mario Giardini
27 giugno 1980, ore 20,59 e 45 secondi. Dagli schermi radar del Centro di controllo di Roma Ciampino scompare un DC9 della compagnia Itavia, matricola I-TIGI, nominativo radio IH-870. Percorreva, a 25.000 piedi, l’aerovia Ambra 13. L’aereo, con a bordo 77 passeggeri, tutti di nazionalità italiana, e 4 membri dell’equipaggio, era decollato con due ore di ritardo, alle 20,08, dall’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna. Doveva atterrare allo scalo siciliano di Palermo Punta Raisi alle 21,13.
E’ la fine per 81 inermi esseri umani. Ed è l’inizio del dramma e del dolore dei parenti. E di una indegna farsa politica che neppure dopo trenta cinque anni accenna a finire. Occuparsi di Ustica è come studiare un processo kafkiano.
L’istruttoria dura esattamente 19 anni, 2 mesi e 4 giorni. L’ordinanza viene depositata, infatti, dal giudice istruttore in data 31 agosto 1999. Sono in tutto 5468 pagine. Cinquemilaquattrocentosessantotto. Un’enciclopedia. Incompleta, perché ad essa sono allegati (se ho contato bene) 103 (centotré) documenti tecnici peritali.
In tale data, il giudice scrive “non doversi procedere in ordine al delitto di strage perchè ignoti gli autori del reato”.
Quindi oltre 19 anni di indagine (quasi a senso unico), 103 perizie, migliaia di interrogazioni, milioni di pagine di testimonianze, ingenti spese di recupero del relitto ed il suo studio, esperti stranieri e nostrani, politici, media, eccetera, producono il nulla.
Il giudice dispone, comunque, il rinvio a giudizio di un certo numero di imputati, quasi tutti appartenenti all’Aeronautica Militare Italiana. Il reato contestato è attentato contro organi costituzionali e alto tradimento, derubricato poi, in primo grado, in alto tradimento.
Nel 2004 c’è la prima sentenza, di assoluzione per i generali Bartolucci, Ferri, Tascio e Melillo. Per Ferri e Bartolucci, risulta prescritto il reato riguardante le informazioni errate fornite al Governo in merito alla presenza di altri aerei la sera della strage, il reato è considerato prescritto in quanto derubricato.
Nel 2005 in appello gli stessi imputati vengono prosciolti “perché il fatto non sussiste”. Il 10 gennaio 2007 (sono passati 27 anni) la Cassazione mette fine alla storia o storiaccia, fate voi: il ricorso da parte della Procura generale e del governo contro l’assoluzione “è inammissibile” e non c’è rinvio, cioè la Cassazione dice che non è necessario un altro processo.
Quello di appello, infatti, aveva stabilito che “l’esistenza di un velivolo che volava accanto al DC9 Itavia è supportato solo da ipotesi, deduzioni, probabilità e da basse percentuali e mai da certezza. Non è stato raggiunto cioè un risultato di ragionevole certezza su un presunto velivolo che avrebbe volato accanto o sotto il DC9 Itavia…”.
Quindi, dopo 27 anni, nessun imputato per strage, e gli imputati per “depistaggio”, cioè gli ufficiali dell’Aeronautica Militare, assolti con formula piena anche in Cassazione.
Mi sono riletto un po’ di documenti che avevo. All’inizio si parla di rottura in volo per fatica: cioè, aereo vecchio e scarsa manutenzione. Non dura molto. Ma abbastanza per far fallire Itavia e farla ingoiare da Alitalia. In seguito, si scarta l’ipotesi bomba a bordo (la più probabile), per inseguire una tesi (missile e battaglia aerea) che neppure con 103 documenti peritali si riesce a dimostrare.
Affinchè sia credibile, bisogna che un aereo voli accanto a quello dell’Itavia: l’aereo che il missile avrebbe dovuto abbattere. Ma la sentenza fa giustizia di una ipotesi che a leggere i documenti appare assai strampalata.
L’accusa poi ripiegherà su una “quasi-collisione” che risulta essere una causa ignota, a livello mondiale, di incidenti aerei: mai verificatosi uno, in settanta e passa anni di aviazione, che si possa attribuire con ragionevole certezza ad una near-collision che non provochi danni strutturali agli aeroplani coinvolti.
Tutta la stampa, e non solo quella di sinistra, fa a gara, anno dopo anno, per gettare continuamente fango sull’Aeronautica Militare Italiana e la NATO; e pare felicissima di tirare in ballo, senza la minima prova, la Francia, gli Stati Uniti, Israele. Mai, però, o solo di striscio, la Libia di Gheddafi.
Sull’onda dell’emozione e dell’interesse di parte, nasceranno carriere politiche (cosa che puntualmente si ripeterà dopo il G8 di Genova). Molti guadagneranno molti soldi con libri, interviste, programmi televisivi, ipotesi, parole in libertà sui media di vario tipo e colore.
Si assisterà ad uno sforzo costante, corale, a volte ignobile, di molta, troppa gente, che non cerca la verità, ma una precisa verità: quella della strage o della connivenza di Stato. Se americano, anche meglio.
E che avranno come conseguenza l’impossibilità di considerare qualsiasi altra ipotesi. Impedendo, di fatto, di indagare in altri direzioni che non fossero quelle indicate dalla vulgata prevalente: e cioè missile, battaglia aerea, americani, francesi, israeliani…
Ottantuno nostri concittadini, e i loro parenti, attendono da quel 27 di giugno, se non giustizia, per lo meno due risposte: chi e perché? Sappiamo che non verranno.
Eppure, sono dovute. Se non altro, a loro, a quegli esseri la cui vita fu troncata appena sbocciata. Infatti, a bordo del DC9 c’erano tanti bambini, troppi, verrebbe da dire: undici in tutto. La più grandicella, Giuliana, aveva 11 anni. Il più piccolo, Giuseppe, era un fagottino di un anno, che immagino in braccio ad un adulto. Morì insieme al fratello Vincenzo (10) e alla sorellina Antonella (7).
Qualche anno fa, perfino il presidente Napolitano, nel suo discorso nel Giorno della Memoria, dedicato alle vittime del terrorismo, ha dichiarato fra l’altro (cito dal Corriere): «Intrecci eversivi, nel caso di Ustica anche forse intrighi internazionali, che non possiamo oggi non richiamare insieme con opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato, a inefficienze di apparati e di interventi deputati all’accertamento della verità, e rivolgere la nostra solidarietà a chi ha duramente pagato di persona o è stato colpito nei propri affetti familiari per effetto delle stragi degli anni Ottanta».
Ignoro se il discorso sia stato preparato da un speech writer o sia farina del sacco del Presidente. Ritengo, da uomo comune, che non abbia la minima importanza. Spiace che la più alta carica dello Stato, il più alto rappresentante di quello stesso Stato incapace, per trent’anni, di dare le risposte che i suoi cittadini si attendono, spiace, dicevo, che egli si lasci andare a considerazioni che, rimettendo in circolo ricostruzioni fantasiose mai provate di fronte ad un Tribunale della Repubblica, non faranno altro che rinfocolare una triste guerriglia fra opposte fazioni politiche.
Forse per Giuseppe, bimbo di un anno d’età, per i suoi ottanta compagni di sventura, per chi volle loro del bene e per coloro che ne serbano memoria, sarebbero bastate due sole parole del Presidente: “Italiani, perdonateci”.
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