di Mario Giardini
Il turbogetto fu inventato negli anni ’30 del secolo scorso. Il suo ciclo termico comprende le quattro fasi classiche del motore diesel. Aspirazione di aria. Compressione. Aggiunta e combustione di un carburante, che provoca l’aumento di temperatura e l’espansione dei gas prodotti dalla combustione. Scarico.
Ma il meccanismo che realizza il ciclo è radicalmente diverso. Al posto di un cilindro nel quale scorre con moto alterno un pistone, che poi trasmette la spinta dei gas combusti all’albero motore, si usa un dispositivo in cui ogni fase è realizzata in una sezione distinta.
Così aspirazione e compressione vengono realizzati dalla sezione anteriore. L’aria compressa viene inviata ad una serie di camere di combustione disposte radialmente. Gli iniettori disposti nelle camere ci combustione provvedono un flusso continuo di carburante, che viene bruciato. I gas della combustione, ad altissima temperatura, passano attraverso una turbina e poi vengono espulsi attraverso un ugello di scarico.
L’energia contenuta nei gas combusti viene in parte assorbita dalla turbina, che muove il compressore, cioè viene spesa per le fasi di aspirazione e compressione. Ed in parte viene scaricata nell’atmosfera, a temperature ancora piuttosto elevate (600° C circa).
E’ questa la parte che fornisce la spinta.
Lo schema è semplice, e geniale al tempo stesso, perché pone rimedio ai due fattori limitanti le potenze ottenibili da un motore endo-termico tradizionale: la discontinuità della combustione e la limitata capacità di aspirazione, che si traduce in minor carburante combusto nell’unità di tempo, causa limitata disponibilità di ossigeno.
Per comprendere il funzionamento del turbogetto si immagini di gonfiare un palloncino di gomma. Mantenete premuto il becco tubolare attraverso cui avete soffiato l’aria. Poi mollate la presa. Vedrete il palloncino schizzare via, e compiere una strana evoluzione in aria prima di ricadere, sgonfio, a terra.
Avrete appena visto in funzione un esempio del terzo principio della dinamica newtoniana. Che nella forma elementare suole esprimersi dicendo che ad ogni azione (cioè a ogni forza applicata) corrisponde una reazione identica (cioè una forza di intensità e direzione opposta alla prima). Questa formulazione è un caso particolare di un principio più generale, quello della conservazione della quantità di moto in un sistema isolato. A sua volta caso particolare del generalissimo principio di conservazione dell’energia.
Quando lasciate il palloncino appena gonfiato, la contrazione della gomma esercita una forza sull’aria contenuta e la spinge in fuori. L’aria reagisce con una identica spinta verso il palloncino. Ecco perché il palloncino vola via. Ed ecco per quale motivo il motore a getto è detto anche motore a reazione.
Due storie di sviluppo del motore a reazione corrono parallele durante gli anni ’30. Hans Joachim Pabst von Ohain in Germania e Frank Whittle in Inghilterra lavorano entrambi con lo stesso obiettivo, e nella medesima segretezza.
La storia di Whittle è leggenda. Era nato nel 1907. Si arruolò a 16 anni nella RAF come “boy apprentice”. Nel 1926 frequentò il corso di pilotaggio, superato brillantemente: “exceptional to above average”. Nello stesso anno vinse un premio in scienze aeronautiche e cominciò a formulare le sue idee su un motore d’aviazione radicalmente nuovo.
Nel 1930, appena ventitreenne, depositò il suo primo brevetto (UK 347 206). Che non fu rinnovato nel 1935, alla scadenza, perché la RAF rifiuto di pagare la tassa di rinnovo: 5 sterline. Frequentò un corso per ufficiali della RAF e lo concluse in 18 anziché 24 mesi, con un punteggio fantascientifico: 98/100. La RAF lo spedì a Cambridge. Whittle era studente a Cambridge quando il brevetto spirò.
Laureatosi, fondò con l’aiuto economico di alcuni finanziatori, la Power Jets Ltd. Quattro interi anni di sviluppo ci vollero per arrivare alla versione WU3.
Nel 1939 si ottennero circa 4.200 N (un po’ meno di 400 Kg) di spinta a 16.500 giri/min. L’inizio della guerra rallentò lo sviluppo, come accadde, dall’altra parte della Manica, a von Ohain. Il primo jet britannico decollò il 15 maggio 1941 e fece un volo eccellente, durato meno di venti minuti.
Gerry Sayer, il collaudatore, appena atterrato si rivolse a Whittle ridendo: “Frank, it flies!” Ebbe come risposta una frase rimasta famosa: “Well, that was what it was bloody-well designed to do, wasn’t it?”
Whittle non ebbe vita facile. Dopo il primo volo del suo jet, la sua azienda non riuscì a produrre nei tempi e con i volumi richiesti dalla RAF. Seguì un periodo in cui la Rover e la Rolls Royce entrarono in campo, perfezionando e migliorando il motore, ma, soprattutto, rendendolo un oggetto industrialmente producibile e riproducibile. In un secondo momento, la DeHavilland si fece promotrice del primo jet da caccia inglese: il Gloster Meteor. Che però era propulso da due turbojets Rolls Royce.
L’efficienza complessiva di una turbina a reazione è il prodotto fra l’efficienza termica e quella di propulsione.
La prima misura quanta parte del calore contenuto nel combustibile viene trasformata in energia cinetica dei gas combusti.
L’efficienza propulsiva è una cosa leggermente più complicata (prodotto della spinta per la velocità diviso per l’incremento di energia cinetica del motore).
Il motore di Whittle non superava il 10% di efficienza complessiva. Che divenne un 18% a metà degli anni ’60, costituendo di fatto un limite all’ulteriore sviluppo, e, pertanto, un incentivo per l’introduzione dei moderni turbo-fans.
Il turbo-fan è una turbina a reazione in cui una parte dell’aria aspirata e compressa viene usata per la combustione, e la rimanente (spesso fino a nove volte maggiore) viene semplicemente espulsa dagli ugelli.
Ciò incrementa la spinta complessiva del sistema, perché la spinta dipende dalla massa di aria e gas combusti espulsi nell’unità di tempo.
In questo modo, l’efficienza complessiva crebbe fino all’attuale 40% circa. Di pari passo crebbero le spinte disponibili. Gli originari 4200 N di Whittle sono diventati i 345.000 N del Rolls Royce Trent 900 montati sull’Airbus A380. Un incremento pari ad oltre l’8500 % in circa 65 anni.
La cosa interessante da osservare è che questa spinta mostruosa serve soprattutto in decollo ed in salita. In crociera a 900 km/h dei complessivi 1.380.000 N disponibili a bordo di un Aribus 380, se ne utilizza meno del 20%.
I motori a reazione sono diventati l’unico prime mover capace di fornire, con pesi ed ingombri limitati, spinte adeguate ad altissima quota, tipicamente intorno ai 35000 piedi, 10.500 m, normale livello di crociera di un jet commerciale.
Una necessità dovuto al fatto che, a tale quota, la densità dell’aria è ridotta a meno di un terzo rispetto al livello del mare: nessun motore a benzina o diesel, neanche quelli con turbocompressore, possono fare altrettanto.
A guerra finita si prosegui lo sviluppo di velivoli a getto militari, e, in parallelo, di quelli civili. La Gran Bretagna era leader nella tecnologia dei turbojets.
La De Havilland inglese mise in cantiere il primo jet commerciale: il Comet. Fece il suo primo volo nel 1949. Entrò in servizio commerciale nel 1952, con una capacità di carico ridotta, in totale 36 passeggeri.
Ma il parto che diede alla luce l’aviazione commerciale che oggi conosciamo fu travagliato, doloroso, e costellato, all’inizio, di gravi e ripetuti incidenti.
Tuttavia, alquanto singolarmente, non furono i motori a getto i principali responsabili dei disastri aviatori cui il Comet andò incontro, ma i finestrini della cabina passeggeri.
Il primo crash avvenne a Ciampino, il 26 ottobre 1952. Il velivolo, in decollo, per un’errata manovra dei piloti, non riuscì ad alzarsi e finì fuoripista. Ci furono, per fortuna, solo due feriti lievi. Ma l’aereo andò completamente distrutto.
Qualche mese dopo, nel marzo 1953, l’incidente ebbe a ripetersi nell’aeroporto di Karachi. Questa volta la fortuna fu meno generosa: morirono undici persone, fra cui tutti e cinque i membri dell’equipaggio.
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