di Mario Giardini
Vediamo quali sono stati i criteri adottati dal giudice civile per analizzare il caso, uno dei più complessi e discussi della storia repubblicana, deliberare ed emettere la sentenza che condanna i Ministeri al risarcimento .
Giudizio penale e giudizio civile. Alcune sentenze di Cassazione degli ultimi anni sanciscono che in Italia vige perché “instaurato dal legislatore il sistema della pressoché completa autonomia e separazione fra i due giudizi”.
La differenza sostanziale fra i due processi, istruisce la Cassazione, “è nella prova”. Ne processo penale si esige di provare “ogni oltre ragionevole dubbio”. In quello civile invece vige la regola del “più probabile che non”. E’ il cosiddetto “standard di certezza (!) probabilistica”.
Che viene spiegato in questo modo (Cass, 10/7/2002): “detto standard di certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana) che potrebbe anche mancare o essere inconferente ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma”.
Proviamo a tradurre il legalese, che naturalmente è ostrogoto per qualsiasi italiano, anche istruito. Intanto: si assume come elemento di decisione, e di condanna o assoluzione, solo una determinazione, soggettiva (perché rappresenta il convincimento del giudice), di “probabilità”, e non una prova, cioè un fatto certo. Poi. Nel determinare la “probabilità” non bisogna solo far riferimento alla frequenza (misura quantitativa-statistica pascaliana del fenomeno) con cui il tale evento avviene o è avvenuto in passato, ma va “determinata l’attendibilità dell’ipotesi”. Dunque, pare si possa ignorare il fatto che mai un certo evento sia avvenuto in passato, oppure sia un fenomeno rarissimo. Il solo fatto che una ipotesi di evento stia in piedi dal punto di vista logico può tradursi in una misura della sua probabilità, indipendente dalla sua frequenza, ricorrendo opportunamente agli “elementi di conferma” . Che a loro volta, come vedremo dopo, non sono prove nel senso classico del termine.
E siccome nel giudizio civile si deve raggiungere la situazione “più probabile che non” , tutte le altre “ipotesi” o “eventi alternativi” vengono ad essere ininfluenti. Cioè si eleva al rango di prova (pardon, di certezza probabilistica: spero si apprezzi il geniale ossimoro ndr) una ipotesi, corredata “da relativi elementi di conferma”.
Come sceglie il giudice civile “gli elementi di conferma”? Par di capire che ciò viene lasciato al suo libero giudizio. Che può, in taluni casi, trasformarsi in arbitrio, sia pure non volontario.
La “probabilità prevalente”. Come se non bastasse quanto sopra per rendere le sentenze del giudice civile indipendenti da ogni prova intesa nel senso letterale del termine, cioè fatto certo ed indubitabile, le Sezioni Unite di Cassazione sentenziano che (gennaio 2008), nel caso vi sia un problema di scelta tra ““una pluralità di ipotesi tra loro incompatibili o contraddittorie sul fatto ” le “esigenze di coerenza e di armonia dell’intero processo civile comportano che tale principio della probabilità prevalente si applichi anche allorché vi sia un problema di scelta di una delle ipotesi, tra loro incompatibili o contraddittorie, sul fatto, quando tali ipotesi abbiano ottenuto gradi di conferma sulla base degli elementi di prova disponibili. In questo caso lo scelta da porre a base della decisione di natura civile va compiuta applicando il criterio della probabilità prevalente. Bisogna in sede di decisione sul fatto scegliere l’ipotesi che riceve il supporto relativamente maggiore sulla base degli elementi di prova complessivamente disponibili, Trattasi, quindi, di una scelta comparativamente relativa all’interno di un campo rappresentato da alcune ipotesi dotate di senso, perché in vario grado probabili. e caratterizzato da un numero finito di elementi di prova favorevoli all’una o all’altra ipotesi.”
Quali siano le esigenze di “coerenza e armonia” dell’intero processo civile non è dato sapere. Ma solleva seri dubbi una giustizia che decide “sulla base degli elementi di prova disponibili” senza, apparentemente, porsi la domanda se tali elementi (in numero finito) siano sufficienti per una decisione.
Che si possa decidere sulla base di una “comparazione relativa” all’interno di “un campo rappresentato da alcune ipotesi dotate di senso” a me, come cittadino, pare inaccettabile. Una ipotesi è una supposizione, cioè come definito dalla Treccani: ” Supposizione di fatti (o situazioni, sviluppi di un’azione ecc.) ancora non realizzati ma che si prevedono come possibili o si ammettono come eventuali, oppure spiegazione, fondata su indizi e intuizioni…”. Ovviamente, sarebbe ancora più difficile accettare una decisione sulla base di un campo rappresentato da “alcune ipotesi” prive di senso.
Qualsiasi manuale di teoria della probabilità definisce la “certezza probabilistica” come l’evento “certo”, cioè quello che ha il 100% di probabilità di avvenire. Detto diversamente: l’evento che avviene sempre. Non il 40, o il 60, o il 15 per cento delle volte. Dunque certezza probabilistica è solo un ossimoro, se si vuole, geniale, ma pur sempre un ossimoro.
Dunque nel diritto civile la metodologia di decisione, in parole povere, può significare questo: ci sono tre ipotesi a disposizione. Alla prima si assegna un grado di probabilità pari al 40%. Alle altre, il trentacinque ed il venticinque, rispettivamente. Nota bene: non c’è, apparentemente, neppure il bisogno di rendere note le percentuali. E’ sufficiente stabilire qual è l’ipotesi più probabile. Dunque si condanna, o si assolve, sulla base di questa “misura” di probabilità.
Il mio dubbio di cittadino è: si è fatta giustizia ? perché il 40% è “comparativamente” maggiore del 35%?
La diversità dei “valori”. La regola del “più probabile che non” si giustifica soprattutto sulla “diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti” (sentenza Cassazione del 2002). Qui il termine “valore” ha indubbiamente un significato ambiguo.
Provo ad interpretare. Nel processo penale, se l’accusa perde, sono “solo” soldi e tempo persi da funzionari dello stato. Qualche volta ci sono condanne a risarcimenti da parte dello stato, ma sono una minoranza di casi. Se la difesa perde, l’imputato perde la sua libertà. Che naturalmente è un “valore” inestimabile. In quello civile, invece, pare ci sia “equivalenza di valori”. Difficile credere però che chi rischia di pagare un risarcimento milionario abbia uno stato d’animo “equivalente” a quello di chi il risarcimento, invece, lo intascherà. E che essere rovinati finanziariamente da un verdetto di condanna a risarcire un danno per un fatto che non si è commesso, sia invece da preferire a, diciamo, due anni con la condizionale e la non menzione.
Il “ragionamento” per “presunzioni”. “Elementi di conferma o di esclusione delle ipotesi in gioco possono e devono essere desunti anche al di fuori dell’ambito dei dati tecnici, in un ambito in cui la professionalità del giudice recupera il suo dominio, che è quello delle prove dirette, testimoniai i e documentali, e delle prove indirette cioè del ragionamento per presunzioni” (pag 40, sotto il titolo “1.3.2. Prove dirette di natura non tecnica che confermano il coinvolgimento di altri aerei nell’incidente di Ustica”).
Un giudizio che fa spazio al “ragionamento per presunzioni”, dove la “professionalità del giudice recupera il suo dominio” (potendosi sostituire ad esperti tecnici di professionalità non questionabile, che però, magari, non riescono a mettersi d’accordo su quanto sia avvenuto) lascia, come cittadini, alquanto perplessi. Inoltre, addurre prove “dirette” di altra natura, come quelle che “dimostrano” il coinvolgimento di altri aerei nell’incidente di Ustica (lo vediamo dopo) non fa che aumentare la perplessità. Sarà pure sensata quest’attribuzione di potere decisionale praticamente illimitata. Ma in casi di estrema complessità (e Ustica lo è) una tale e amplia possibilità di ignorare gli esiti di un processo penale sullo stesso caso appare fortemente discutibile.
I documenti del processo penale scelti per la sentenza civile. “Nella motivazione della presente sentenza si farà ripetutamente riferimento agli elementi di prova che hanno costituito oggetto di valutazione da parte del Giudice Istruttore mediante rinvio alla sua sentenza ordinanza (pag 13 della sentenza).”
Una sentenza di rinvio a giudizio non contiene mai “elementi di prova” che si possano definire tali, a meno che vengano convalidati dal tribunale che giudica.
Nessuno degli “elementi di prova” della sentenza Priore resse ai tre gradi di giudizio: né quelli contro gli imputati, né, tanto meno, quelli che raccontavano delle cause dell’incidente: quindi rimasero quel che furono in partenza, e cioè affermazioni dell’accusa non accolte dal tribunale.
Siccome tuttavia il giudice civile si basa sulle probabilità, e non sulle certezze, ecco che gli elementi di accusa vengono, quasi per magia, trasformati in elementi di prova, perché accreditati di “probabilità superiore” ad altri, e divengono così “le prove” che sostengono la sentenza civile.
Il processo penale non conta dunque nulla? Conta, ma, apparentemente, nella misura in cui il giudice civile decide che conti.
In sostanza “la decisione del giudice civile può fondarsi, anche in via esclusiva, sulla valutazione di elementi di fatto acquisiti in sede penale, e ricavati dalle sentenze o dagli atti di quel processo, ritualmente acquisiti in sede civile, (poiché le parti di quest’ultimo possono fame oggetto di valutazione critica e stimolarne la valutazione giudiziale su di essi): ciò comporta la possibilità che, a fronte di una situazione probatoria che non consenta di ritenere raggiunti nel dibattimento penale sufficienti risultati ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, il giudice civile possa ritenere sussistente il fatto dannoso e la conseguente responsabilità civile”.
In altri termini: il giudice civile sceglie se e quali documenti acquisire: non è detto che siano le sentenze (“ricavati dalle sentenze o dagli atti”); e dunque stabilisce quali documenti, a suo giudizio, hanno valore al fine della responsabilità civile.
Un cherry picking soggettivo. Che può includere anche le sentenze di rinvio a giudizio che si concludono con una assoluzione con formula piena.
E’ il caso dell’Itavia e del Giudice Civile di Palermo, che fonda la sua decisione prevalentemente sull’ordinanza di rinvio a giudizio presentata dal Giudice Priore (che non rinviava a giudizio per strage, essendo gli autori della stessa ignoti, e che si concluse, nei tre gradi di giudizio, con l’assoluzione degli altri imputati per reati vari, che includo nel termine generico di “depistaggio”), con formula, come detto prima, piena: “il fatto non sussiste” oppure “il fatto non costituisce reato”. Come si riesce a far ciò?
Non affermando ciò che legioni di periti non sono riusciti ad affermare, cioè una certezza in senso penale, ma stabilendo, come dicevo sopra, una graduatoria di probabilità.
Non so voi, ma io come cittadino ho molti dubbi che quanto sopra rappresenti una “logica” accettabile, sia pure ristretta al solo ambito di procedimenti civili.
continua…
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