Buddismo e Scienza-VII-L’impermanenza: Il pensiero buddhista e il pensiero della Scienza.

galassie,Hubble  1. L’impermanenza. Il pensiero buddista.

Come abbiamo discusso(articoli IV e VI), secondo il concetto buddista di interdipendenza il mondo è come un vasto flusso di eventi e di correnti dinamiche, tutte interconnesse e costantemente interagenti in un rapporto continuo di causa ed effetto. E questo porta al concetto di vacuità, per cui nessun fenomeno possiede una esistenza propria e intrinseca.

Ne consegue allora che, se qualcosa rimanesse immutabile anche per un brevissimo istante, rimarrebbe così bloccato per l’eternità. Nulla può rimanere identico a se stesso, neanche per il più breve istante immaginabile. Questo è il concetto di impermanenza.

Dal concetto di impermanenza il Buddhismo trae profondi insegnamenti morali ed etici. È necessario ridurre il nostro attaccamento alla realtà che ci circonda, esseri, cose, eventi, compresi noi stessi, diversamente, se ci attacchiamo alle cose come se fossero permanenti e stabili, noi ci illudiamo che esse abbiano il potere di renderci felici o infelici.

Il Buddhismo intende infrangere il concetto secondo cui le cose sono impermanenti e solide, così da liberarci dal circolo vizioso di illusioni che causano la nostra sofferenza.

2. L’impermanenza, il pensiero della scienza

  1. Cosmologia.

Il concetto di impermanenza, cioè di un mutamento perpetuo, onnipresente, si accorda con la moderna cosmologia. La teoria della relatività insegna che l’universo si sta espandendo a causa dell’impulso ricevuto dal Big Bang. Con la teoria del Big Bang, l’universo ha acquisito una storia. Ha un inizio, un passato, un presente e un futuro. Un giorno morirà in una deflagrazione infernale oppure in un gelido congelamento. Tutte le strutture planetarie dell’universo, stelle, galassie e ammassi di stelle sono in movimento perpetuo e sono parte di un immensa danza cosmica: ruotano sui propri assi, attorno alle proprie orbite, si avvicinano o si allontanano l’una dall’altra. Le stelle possono vivere anche miliardi di anni, durante i quali sono in continua trasformazione, finché termineranno la loro vita in una immane esplosione, una supernova.

  b.   Fisica quantistica.

Le particelle possono cambiare la loro natura: un protone può decadere in un neutrone più un antielettrone e un neutrino. Materia e antimateria si annullano l’un l’altro in un fascio di luce. L’energia cinetica di una particella può trasformarsi un altre particelle, e viceversa.

Supponiamo di realizzare il vuoto perfetto in un determinato volume, eliminando ogni atomo, ogni particella, ogni radiazione. Ciò che abbiamo ottenuto non è il nulla. Se potessimo osservare lo spazio vuoto a scale infinitesimali, vedremmo le cosiddette fluttuazioni quantistiche, cioè vedremmo lo spazio vuoto agitarsi, tremare, ribollire, ondeggiare, formare bubboni, ciambelle, rigonfiamenti, avvallamenti, buchi.

Vedremmo miliardi e miliardi di coppie di particelle di materia e antimateria che, in frazioni infinitesimali di un secondo nascono e si annientano. Assisteremmo a una danza indiavolata, un incessante trasmutarsi di energia in materia e viceversa.

Vedere a questo proposito l’artico “lo spazio vuoto è una gruviera foruncolosa di Mario Giardini”su questo blog.

È come se il dio Shiva della filosofia Indù, il dio che crea e distrugge, danzando fra fuoco, materia e energia, si fosse materializzato davanti a noi.

Lo spazio vuoto è la perfetta rappresentazione del concetto buddista della impermanenza.

Con il concetto di impermanenza concludiamo la nostra analisi delle straordinarie armonie fra il pensiero buddhista e la fisica, riguardo i problemi ultimi della realtà del mondo.

Come abbiamo visto, inoltrarsi in questi problemi richiede talvolta di accettare una realtà che la pura ragione non è in grado di spiegare. Apparentemente lo strumento matematico, anche se in grado di calcolare con estrema precisione le proprietà delle particelle, non è in grado di dare risposte a domande per le quali fisica e filosofia e religione si sovrappongono.

Conoscere e cercare di interpretare il grande mistero, non è solo fine a se stesso, perché riflettere sul grande mistero dovrebbe aiutare gli uomini ad alzare lo sguardo dalle loro meschinità. Come ha dichiarato il Dalai Lama in occasione dell’apertura dei lavori congiunti con gli scienziati, presso l’istituto Mind and Life a New Dheli nel Novembre 2001:

“ Una collaborazione fra scienza e religione che non comporti di arroccarsi fermamente in un campo o nell’altro, potrebbe anche rivelarsi essenziale per il futuro dell’umanità”

3. Le neuroscienze

Per completare il discorso del rapporto fra pensiero buddhista e pensiero della Scienza, finora dedicato esclusivamente alla fisica, accenniamo brevemente a un altro argomento di estremo interesse: le neuroscienze.

Il dialogo fra Buddhismo e neuroscienza riguarda la natura della coscienza, su come questa è vista dalla scienza e dalla filosofia buddhista.

Gli stati della mente sono identici agli stati cerebrali?Sono stati del cervello fisico o possono esistere indipendentemente dal cervello?Quando ricordo,immagino o vedo qualche cosa, questo consiste in uno stato del cervello, o consiste nello stato della mente, considerata un’entità separata? In altre parole,come può il cervello, entità materiale, produrre lo stato di coscienza, entità immateriale?

Qui ci limitiamo a enunciare il problema riportando quanto dice lo studioso Pier Luigi Luisi, che collabora con l’istituto Mind and Life (http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/pier -luigi-luisi/prove-di-dialogo- fra- scienza- e -buddhismo/luglio-2013).

“Ci sono due accezioni principali del temine coscienza nella nostra letteratura presente, che si rifanno alla celebre definizione del filosofo inglese David Chalmers.

Secondo Chalmers, c’ è il problema facile, e il problema difficile della coscienza, the easy and the hard problem .

L’ easy problem ha a che fare con gli aspetti cognitivi della coscienza, gli atti volitivi, coscientemente intenzionali, la coscienza di qualcosa (si chiama easy problem non perché sia facile capirne il funzionamento, ma perché almeno si vede una connessione con gli aspetti neuronali, meccanicistici del cervello).

Poi c’è invece l’aspetto soggettivo della coscienza, la esperienza personale per esempio della sensazione del colore blu, della gioia, della paura… Questa è appunto l’esperienza individuale, incomunicabile, intima, che corrisponde veramente a un livello diverso di coscienza. E quando si raggiunge tale livello, e se ne ha la percezione, allora si può raggiungere un terzo livello, quello del sapere di sapere, cioè il livello auto riflessivo della coscienza.

E su questa dimensione di esperienza soggettiva della coscienza, il hardproblem, secondo Chalmers, non abbiamo una spiegazione. Non sappiamo neppure perché esista. 

La maggior parte della scienza neurobiologica vede tutti gli aspetti di coscienza come derivanti, in un modo o nell’altro, dal cervello. In questo senso anche il hard problem ha una base materiale, è una proprietà emergente del cervello.

Ci sono varie scuole e teorie su questo, non vogliamo certo entrare qui in dettaglio.

C’è solo da aggiungere che non tutti sono d’accordo con l’idea che la coscienza sia secondaria rispetto al cervello. E parlano, infatti, di coscienza come fenomeno primario (vedi per esempio i lavori di Michel Birbol ), dove si parla appunto di una radicale auto – referenzialità della coscienza (un divertente argomento a tale riguardo è il seguente: per parlare di cervello, occorre prima avere la coscienza della esistenza del cervello, ergo la coscienza è primaria…)”.

Come si vede, l’argomento è complesso e soggetto a pareri discordi, anche nel campo della scienza. Qui possiamo soltanto sfiorarlo accennando brevemente alle due posizioni antagoniste oggi discusse nel campo delle neuroscienze:

  • La posizione dualistica che risale a Descartes(già presente in Platone): mente e cervello sono due entità separate, il cervello(res extensa)è una entità materiale, la mente(res cogitans)è una entità immateriale.
  • La posizione materialista della scienza moderna: nulla esiste che non sia fisico, quindi gli stati mentali sono riconducibili a un insieme di attività bioelettriche e biochimiche.

La posizione dualistica non incontra oggi il favore della maggioranza del mondo scientifico, perché appare problematica l’interazione fra mente(immateriale) e cervello(materiale). Per spiegare il libero arbitrio occorre accettare che questa interazione esista, come sostenuto da Karl Popper, premio Nobel per la filosofia e da John Eccles, premio Nobel per le neuroscienze.

Tuttavia, l’obiezione della fisica è che tale interazione richieda che la mente “crei” dell’energia per interagire con il cervello e questo contrasta con il principio di conservazione dell’energia, secondo cui l’energia non si crea e non si distrugge.

Anche la posizione materialistica, sembra non comportare l’esistenza del libero arbitrio, perché le attività bioelettriche e biochimiche del cervello debbono ovviamente obbedire a precise leggi fisiche. Secondo il grande cosmologo Stephen Hawking “E’ difficile immaginare come possa operare il libero arbitrio se il nostro comportamento è determinato dalle leggi della fisica, e così sembra che non siamo nient’altro che macchine biologiche e che il libero arbitrio sia soltanto un’illusione”(S.Hawking “Il Grande Disegno”).

Immaginare la nostra vita come predeterminata da leggi fisiche fin dalla nascita è semplicemente allucinante.

Si tratta di un problema estremamente complesso e affascinante, la cui soluzione potrebbe richiedere, secondo alcuni scienziati, di pagare uno scotto alla metafisica.

Anche su questo problema è molto interessante e reciprocamente illuminante il dialogo fra scienza e Buddismo, come riportato nelle pubblicazioni dell’istituto Mind and Life.

Ne parleremo.

 

“Al momento sembra che la scienza non sarà mai in grado di sollevare il velo sul mistero della creazione. Per lo scienziato che ha vissuto nella fede della potenza della ragione, la storia termina con un brutto sogno. Egli ha scalato le montagne dell’ignoranza, sta per conquistare la vetta più alta: mentre si arrampica per superare l’ultimo spuntone di roccia, viene salutato da una banda di teologi che da secoli già sedevano lassù”. (conclusione del libro“Dio e gli astronomi” dell’astrofisico Robert Jastrow )

 

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