Sul Corriere, non più tardi di due settimane fa, si poteva leggere questo titolo: “Metà delle specie animali a rischio scomparsa per il cambiamento climatico”.
L’articolo proseguiva: un nuovo studio, “Pubblicato sulla rivista «Climatic Change» … ha esaminato la situazione del Mediterraneo (e non solo) nell’ambito di una ricerca più ampia sull’impatto del riscaldamento su 80 mila specie di piante e animali in 35 aree del pianeta ricche di biodiversità. Secondo lo studio, a fine secolo, potremmo assistere ad estinzioni locali in alcuni dei paradisi mondiali della biodiversità. E soprattutto, sottolinea il rapporto, anche rimanendo entro il limite di 2°C posto dall’Accordo sul clima di Parigi, perderemmo il 25% delle specie che popolano le aree chiave per la biodiversità.”
Chiunque legga i giornali si imbatte un giorno sì e l’altro pure in allarmi di questo tipo. Molto spesso, l’allarme riguarda un evento molto lontano nel tempo. Quindi chi lo lancia non corre pericolo alcuno, tanto nessuno fra noi che lo legge potrà mai verificare la notizia.
In questo caso, l’allarme proviene dal WWF, dalla East Anglia University (ricordate il globalwarming-gate?) e la James Cook University, australiana. Tre soggetti che hanno fatto fortuna (letteralmente) annunciando negli ultimi decenni catastrofi epocali.
In questo articolo, però, voglio occuparmi di “biodiversità”. Tutti questi allarmi, invariabilmente, ne preannunciano una più o meno marcata diminuzione. Chi legge dà per scontato che tale diminuzione avrà conseguenze catastrofiche per il genere umano e per la vita biologica, la cosiddetta biosfera, dell’intero pianeta. Ma è vero? Come influenza negativamente una diminuzione della biodiversità la vita dell’uomo e del pianeta? E, più in generale, che cos’è la biodiversità e come la si misura?
Per rispondere a queste domande, cosa c’è di più appropriato che consultare la Enciclopedia della Biodiversità, pubblicata da Elsevier, II edizione, anno 2013? Alla voce Biodiversity, Definition of, curata da Ian R Swingland, University of Kent, Vol 1, pag. 400, si legge: “la parola gergo “biodiversità” è, a causa della sua reale origine, fondamentalmente indefinibile, essendo una parola populista inventata per pura convenienza” (“the jargon word ‘‘biodiversity’’ is, by its very origin, fundamentally indefinable, being a populist word invented for convenience”).
Come mai il Professor Swingland (e non solo lui, evidentemente) arriva a questa conclusione?
Alla radice c’è un semplice fatto: non esiste una unica definizione di biodiversità, cioè di diversità biologica, unanimemente accettata da tutti gli studiosi della materia. Di definizioni se ne sono prodotte una discreta quantità.
Tutte più o meno insoddisfacenti. Cosa che, nelle scienze fisiche, porterebbe alla immediata conclusione che la biodiversità è un concetto fisico non misurabile, poiché la misura, ammesso che sia possibile, cambierebbe al mutare della definizione. E che, non potendo quantificare con ragionevole precisione la biodiversità, parlare di sua diminuzione, incremento, o costanza è un’assurdità scientifica.
Biodiversità è la contrazione corrente di “diversità biologica”, una definizione usata per la prima volta nel 1980. Indicava, sostanzialmente, il numero delle specie viventi. Tuttavia, i mezzi tradizionali per separare e determinare le specie viventi erano all’epoca inadeguati, e insoddisfacenti. Si cercarono definizioni più appropriate, che potessero rendere conto non solo della varietà, ma anche della variabilità, degli organismi viventi. Era necessario tenere conto dei geni, delle specie, degli ecosistemi.
Una definizione fu: “l’abbondanza, varietà e la costituzione genetica degli animali e delle piante”. Considerata sin troppo limitata, si arrivò a criteri assai complessi, e praticamente impossibili da tradurre in “misurazioni”. Come quella che propose Delong nel 1996: “la biodiversità è un attributo di un’area e si riferisce specificamente alla varietà entro e fra organismi viventi, assemblaggi di organismi viventi, comunità biotiche, e processi biotici, sia naturali che modificati dagli umani. La biodiversità può misurarsi in termini di diversità genetica, dalla identità e numero dei differenti tipi di specie, assemblaggi di specie, comunità biotiche e processi biotici e dall’ammontare e dalla struttura di ciascuna di esse. Può essere osservata e misurata a qualsiasi livello di scala, che si estendono da micrositi e habitats fino all’intera biosfera”. Messa così, anche se si afferma di poterla misurare, è praticamente impossibile farlo.
C’è un altro problema, assai più consistente: qual è il nostro grado di conoscenza degli organismi viventi?
Consultando “Life on Earth – An Encyclopedia of Biodiversity, Ecology, and Evolution”, pochissimo. A pag. 13, capitolo What is biodiversity?, si trova una interessante tabella dalla quale si desume che sono state descritte (tassonomia) 1.747.851 specie differenti.
Sono molte o sono poche? Sono pochissime, una goccia nel mare.
Per esempio, sono stati descritte 4.496 specie di mammiferi. Questo rappresenta (valore stimato) lo 0,3% del totale. Cioè, di 1.498.667 specie di mammiferi che pensiamo abitino il pianeta, ne conosciamo solo 4.496. Mancano appena 1.494.171 (un milione quattrocento novantaquattromila cento settantuno) mammiferi da scoprire e studiare! Di batteri ne conosciamo 9.021, e ciò rappresenta lo 0,5% (stimato) del totale, che è esattamente di 1.804.200. Anche per loro, all’appello ne mancano circa 1.800.000. Di vermi piatti ne conosciamo 13.780, ma il totale stimato di specie è oltre 1.700.000.
Non va meglio con il regno vegetale. Sono note 601 specie di conifere, e ciò rappresenta lo 0,03% del totale, che assomma a 2.003.333. Per le alghe, stessa storia. Classificate 15.000 specie diverse, ma si presume ce ne siano oltre 1.600.000.
Quindi la nostra ignoranza è totale, acuta e disperante. Alla domanda: quanta è è la biodiversità totale del pianeta che dobbiamo preservare e difendere? Non lo sappiamo. E, probabilmente, in una biosfera che segue le leggi dell’evoluzione, e quindi dove le specie mutano, si adattano, crescono o decrescono, in virtù di una incessante selezione naturale, non lo sapremo mai.
Si stima che la vita sia apparsa sulla Terra 3,6 miliardi di anni fa. In quest’arco di tempo, e basandosi sui resti fossili, si stima che oltre il 99,9% delle specie sono apparse alla vita, si sono evolute e si sono estinte ( Gregg Hartvigsen, State University of New York, Enciclopedia della Biodiversità, pag411 : “Estimates for the diversity of life on Earth, based on the small sample of discovered fossils, suggest that greater than 99.9% of species have evolved and disappeared through extinction”).
Dunque la regola naturale è l’estinzione, non la sopravvivenza delle specie.
Si dirà che non c’è ragione, comunque, perché gli esseri umani si diano da fare per aumentare il tasso di estinzione. E sono d’accordo.
Ma si dovrebbe anche dire che assistere all’estinzione di una frazione minima delle specie che conosciamo, che a loro volta sono una frazione minima di quante pensiamo esistano, non dovrebbe generare questi allarmi di catastrofi imminenti.
In altri termini, si dovrebbe essere più realisti e più veritieri nel presentare le cose.
A questo punto possiamo porci una serie di altre domande. In primis: quanto è importante la biodiversità? E dunque, quali e quanto valore attribuirgli?
Da un punto di vista biologico, si ritiene, unanimemente o quasi, che maggiore è la diversità, maggiore è la resilienza della biosfera. Cioè la capacità di superare qualsiasi catastrofe, climatica e non, che minacci la sua intera esistenza. In altri termini: la capacità di sopravvivenza della vita biologica sul pianeta.
Tuttavia, essendo le risorse del pianeta limitate, è ovvio che esiste un limite alla biodiversità. Altrettanto ovvio è che, data la complessità della biosfera e data la nostra grandissima ignoranza sul come è fatta e come funziona, noi non conosciamo qual è la combinazione di specie viventi che assicurano il massimo di questa resilienza. Ed è probabile che non lo sapremo mai.
Per quanto riguarda la vita umana, la biodiversità è una moneta che ha due facce. La prima, è benefica: l’aumento della biodiversità per ciò che attiene al cibo e alle specie che, pur non essendo cibo, come le specie vegetali che producono ossigeno, è sommamente importante. Ne va della nostra esistenza.
L’altra faccia della medaglia è meno benevola, anzi: un aumento, o una mutazione genetica, delle specie che costituiscono una minaccia per l’esistenza, come alcune specie di virus, è ovviamente un attentato alla nostra esistenza.
Che valore attribuire alla biodiversità? Ci sono ampie discussioni, come è ovvio, perché una misura di valore è in grandissima parte soggettiva e dunque le opinioni sono molte. Sono molte perché i criteri proposti sono molti. Kellert ne enuncia ben nove: intrinseco/utilità/strumentale (es: cibo), naturalistico (scoperta e ricreazione), ecologico-scientifico (conoscenza), estetico (bellezza, ispirazione), simbolico (comunicazione), umanistico (connessione alla natura), moralistico (reverenza spirituale), dominativo (dominazione della natura), negativista (alienazione dalla natura).
Conclusioni? Tante quante possono essere il valore che ciascuno di noi attribuisce alla biodiversità in base a un qualche criterio, quale quelli esposti, ed elaborato secondo la propria cultura e le proprie inclinazioni.
Da quanto detto, però, si può senz’altro concludere che gli allarmi sono nella quasi totalità dei casi eccessivi ed interessati.
Ridiamo la parola al prof. Svingland: “l’invenzione della parola biodiversità ha avuto effetti benefici perché ha alimentato progetti di ricerca… e gli scienziati sono stati coinvolti nel dibattito al fine di dimostrare che la biodiversità è utile all’umanità e necessaria per il funzionamento corretto degli eco-sistemi”.
Insomma, gli allarmi pagano, nel senso che scienziati che mai otterrebbero fama, cattedre e cospicui finanziamenti possono, invece, raccoglierne in quantità.
Un’ultima considerazione è la seguente. Il 26 aprile 2016 la NASA ha rivelato uno studio secondo il quale il pianeta, negli ultimi anni, è diventato sempre più verde. Nel senso che le foreste e le aree dove cresce vegetazione sono aumentate del 25-50% in trent’anni. La causa?
La maggiore disponibilità di anidride carbonica nell’atmosfera. La CO2, come tutti sanno, è anche un gas serra. E c’è una pletora di “scienziati” menagramo che la considerano il killer del pianeta. Ma, guarda caso, rende certamente il pianeta più verde, e non è detto (perché molto controverso) che lo scalderà fino a creare cataclismi mai visti in passato.
A questo aumento spettacolare di superfici rimboschite o ritornate allo stato naturale deve per forza di cose corrispondere, secondo logica, un aumento di biodiversità, cioè o del numero di specie viventi o del numero di individui delle specie viventi. O entrambe le cose.
Ma questo gli allarmisti non lo dicono. Dicono invece che perderemo, quasi certamente a causa del global warming, cioè della CO2, “il 25% delle specie che popolano le aree chiave per la biodiversità” anche se l’aumento di temperatura media starà entro i 2°C previsto dall’accordo di Parigi.
Ma adesso che sappiamo qualcosa di più circa la biodiversità, forse possiamo ragionare con la nostra testa e non con quella di chi è a caccia di donazioni.
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